Descrizione
Il sarcofago, di forma rettangolare, è poggiato su tre mezze figure di leoni medievali, dei quali quello a destra non è finito (attualmente volti dalla parte con il rilievo antico). La faccia principale, rimasta integra, raffigura in tre scene una delle tante versioni del mito di Fetonte (in greco, il “Luminoso”), secondo gli schemi figurativi dei sarcofagi romani del II e III secolo. Nella prima scena, a sinistra, in alto, il giovane compare con il padre Helios (il Sole) e con le sorelle, le Eliadi. Al centro, in primo piano, Fetonte si è impadronito del carro di Helios con cui percorre i cieli dando luce al mondo; ma, poiché Fetonte è inesperto e i cavalli hanno cambiato percorso minacciando di incendiare la terra, Zeus lo colpisce con un fulmine e lo precipita nel fiume Eridano (l’attuale Po). A destra i Dioscuri, Castore e Polluce, domano i cavalli e li riconducono all’Olimpo; dietro di essi compaiono Eosphoros e Hesperos, cioè Fetonte stesso sotto le sembianze dell’astro che egli personifica: l’astro di Afrodite, il pianeta Venere. Una forma duplice, perché Venere è al tempo stesso la stella più luminosa della sera (Hesperos, in latino Vesper) e la messaggera del mattino (Eosphoros, Lucifer per i latini, significa in greco “portatore di luce”). L’altro lato maggiore del sarcofago, porta tre stemmi, alternati a due campi di piccoli gigli: il giglio di Firenze, l’aquila guelfa e la croce del Popolo. Nella testata minore a destra è decorato il blasone dei Farnese sormontato da un cimiero; sul lato opposto, nella testata minore a sinistra, un altro scudo Farnese, un cimiero, una volpe a testa in giù (simbolo dei pisani sconfitti) e un piccolo giglio dei Farnese.Il coperchio, di forma trapezoidale, posto di fronte al sarcofago, è decorato, al centro, con le chiavi di San Pietro incrociate, simbolo della Chiesa, e ai lati due campi di gigli su fondo azzurro, stemma degli Angiò di Napoli, primi podestà stranieri della città, ripetuto anche sugli spioventi laterali del coperchio.
Notizie storico critiche
Secondo la testimonianza del Poggi (1904, pp. 40-42), l'opera, appartenente al periodo romano (II secolo d.C.), fu riutilizzata nel XIV secolo come sepolcro del Farnese, testimonianza della consuetudine medievale di riciclare marmi antichi. Pietro Farnese, comandante fiorentino, morì di peste nel 1363 a San Miniato al Tedesco. Pochi mesi prima il Farnese aveva sconfitto i pisani nello scontro di Bagno a Vena, mostrando un tale eroismo che la Repubblica decise di costruirgli un monumento funebre nella cattedrale quattro anni dopo, nel 1367. L’antico sarcofago venne scalpellato e scolpito su tre facce; le sculture originali rimasero solo sul lato che guardava la parete del tempio. Sul coperchio della tomba fu collocata una statua equestre del capitano, probabilmente in legno e gesso, e un baldacchino ligneo. Nel 1841 sia il baldacchino che la statua furono tolti e trasportati nei magazzini dell’Opera di Santa Maria del Fiore; in seguito furono dispersi o distrutti. La statua equestre era stata attribuita in passato dall’Ammirato ad Andrea Orcagna e dal Vasari a suo fratello Jacopo: la sua scomparsa è abbastanza misteriosa poiché nell’Ottocento alcuni studiosi la descrivono collocata nei magazzini dell’Opera. Le testimonianze sono discordi anche sui materiali usati: legno e cartapesta, legno e tela, gesso e cartapesta. E’ certo invece che il Farnese era stato raffigurato su un mulo “in levata”, posizione che avrà grande fortuna. La statua era ispirata ad un episodio accaduto a Bagno a Vena quando il suo cavallo era stato ucciso ma il capitano non si perse d’animo e combattè fino alla vittoria in sella ad un mulo da soma.
Barbavara di Gravellona (2002, pp. 200-202) descrive, in ordine cronologico, le uniche testimonianze visive dell’aspetto originario del monumento e in particolare della statua equestre: tre disegni, di carattere abbreviato, ritrovati in tre diverse copie del Sepoltuario fiorentino di Stefano Rosselli (1657); un disegno risalente alla metà del XVIII secolo, non più tardi del 1785, trovato da Alessandro Parronchi nella Biblioteca Nazionale; un’incisione del XIX secolo, eseguita dal Gozzini per Pompeo Litta, quando la statua si trovava in pezzi nei depositi, e pubblicata nell’edizione delle Famiglie celebri d’Italia del Litta curata da Federico Odorici. A queste si può aggiungere un quadro che doveva essere posto su una delle pareti della Sala degli Imperatori di Palazzo Farnese a Roma ma, tale notizia, non è stata ancora collegata con il monumento equestre di Piero da Farnese nel Duomo fiorentino. La realizzazione del progetto iniziò tre anni dopo la morte del capitano, nel 1366. All’inizio del 1367 il monumento era ormai a buon punto. Il 9 marzo dello stesse anno, gli Operai dell’Opera riunirono la cittadinanza per scegliere nella chiesa un luogo onorevole in cui posizionare il sepolcro. La maggioranza propose di collocarlo ad una certa altezza sopra i beccatelli sulla parete della navata destra , tra la Porta del Campanile e la parasta della seconda volta, dove si trovava l’altare di San Matteo. L'Ammirato (1600-1641) ricorda il sepolcro "sopra la porta a lato del campanile" nella chiesa di Santa Maria del Fiore. Il 15 giugno successivo gli Operai modificarono la decisione e stabilirono che la tomba fosse collocata sopra la suddetta porta. Il 30 novembre successivo il pittore Francesco di Bono fu pagato per la decorazione policroma della sepoltura di Piero da Farnese e per altri lavori che realizzò nello stesso periodo.
La Becherucci (1969, pp. 213-214) ricorda che meno di trenta anni dopo, nel dicembre del 1395, in occasione di una prima progettazione del monumento a Giovanni Acuto si incaricarono i pittori Agnolo Gaddi e Giuliano d'Arrighi, detto il Pesello, di disegnare una nuova sepoltura per Piero del Farnese nella parete opposta. Fu forse in quella occasione che fu aggiunta la statua equestre in questione, poi asportata e andata perduta. Recentemente il monumento è stato assegnato dal Parronchi alla bottega orcagnesca che concluse <<…è chiaro che esso uscì da quella bottega [l’orcagnesca] che era la più florida del secondo Trecento fiorentino>>. Variamente datata, la tomba è stata messa in relazione da alcuni studiosi con un documento del 1366-67, da altri con un altro del 1395. Appare però più ragionevole accettare la prima data per lo stile dei rilievi caratterizzati da una certa secchezza di trattamento e con un fare artigianale che si ritrova anche negli stipiti della porta dei canonici databile appunto in quegli anni.
Relazione iconografico religiosa
In origine, lo spazio compreso tra il Battistero e l’antica Cattedrale di Santa Reparata, l’attuale Santa Maria del Fiore, era occupato da un cimitero. Le tombe a terra erano affiancate da numerosi sarcofagi di arte romana, testimonianza dei rapporti tra Roma e Firenze: molti di questi manufatti venivano esportati nelle province per servire non solo come tombe ma anche per scopo ornamentale. Con il tempo anche i sarcofagi istoriati con scene pagane finirono nei cimiteri cristiani, e riciclati come tombe nobiliari. La produzione di sarcofagi a rilievo è un fenomeno della tradizione culturale romana che si diffonde in maniera capillare, fino a diventare il più importante complesso figurativo di età imperiale. Tali sarcofagi mostravano spesso una decorazione con diverse raffigurazioni della mitologia classica, prevalentemente miti tragici, principalmente con scopo “consolatorio”, cioè di identificarli come exempla vitae o exempla dell’inevitabilità della morte e del destino che tocca anche agli eroi, come ricorda il famoso mito di Fetonte riprodotto sul Sarcofago Farnese; ma anche come “elogio”, evidenziando le virtù del defunto e facendo riferimento non solo a vicende personali ma a valori condivisi da tutta la società. Questo presupponeva un accurato processo di selezione, che per ogni mito individuava particolari episodi considerati appropriati per diffondere determinati messaggi. L’idea della morte, quindi, doveva essere in qualche modo rispecchiata dai miti prescelti per la decorazione dei sarcofagi e dal modo in cui erano raffigurati.