Descrizione
Su due alte basi composte da basamento, dado e cimasa, poggiano due pilastri e due colonne. L’ordine di pilastri e colonne è lo ionico con un’elaborata base costituita dalla sequenza di plinto, toro inferiore, scozia inferiore, astragalo di separazione, scozia superiore e toro superiore. Le colonne dal fusto affusolato, hanno un capitello ionico con collarino a baccellature, con encarpio nel canale della voluta, echino ad ovoli (tre su ciascuna fronte), intervallati da dardi, poggiante su un astragalo intagliato da fuseruole. Il pulvino e la tazza sono sovrapposti ad un collarino intagliato a sbaccellature. I lati del pulvino sono modellati da due balaustri smagriti al centro con gli assi laterali sagomati non a listello ma ad echino con le due simmetriche campane ricoperte da foglie allungate dal profilo frastagliato, con il balteo centrale costituito da una corposa ghirlanda di fiorellini o di piccoli frutti stretti da bandinelle. La trabeazione è suddivisa in tre membri ed è formata da un architrave eterodosso costituito da un cimazio ad echino, da una prima altissima fascia con apofige superiore e al di sotto, da una sorta di fascia intermedia, coronata da un astragalo. Il fregio si presenta completamente liscio come il sovrapposto cornicione con il suo semplificato sottogrondale ove il risalto non è decorato a dentelli (come invece avrebbe richiesto l’ordine ionico). L’arcata presenta una ghiera riccamente modanata con l’intradosso scavato da lacunari con un grande fiore centrale intagliato con estradosso sagomato a gradini.
Notizie storico critiche
L’arcata marmorea proviene dall’antico coro bandinelliano edificato tra il 1547 ed il 1572 e collocato al centro della tribuna sotto la cupola della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Nel 1842, durante la realizzazione del progetto di smantellamento e di trasformazione del Coro da parte dell’architetto Baccani, la colonnata fu smembrata in diversi pezzi che furono immagazzinati presso l’Accademia delle Belle Arti. Nel 1843, sempre dal Baccani, ne fu stilato un inventario, depositato nell’Archivio dell’Opera . Tra gli altri pezzi l’inventario ricorda: “72 colonne di marmo mischio di Seravezza con base e capitello di ordine ionico in marmo bianco”, “24 pilastri parti quadrati e parti per angolo con base e capitello uguali in altezza alle colonne”, “4 archi parte di marmo bianco e parte di marmo mischio di Seravezza". Tutto questo fu messo in vendita all’incanto ma le offerte furono scarse tanto che molti pezzi furono dislocati alla Fortezza da Basso e nei sotterranei di San Lorenzo per essere poi restituiti poi all’Opera (Corazzi, 2001). La scheda su questo manufatto curata da Luisa Becherucci nel 1969 nel catalogo del museo, affronta le questioni relative all’arcata insieme alle problematiche relative a due basi in marmo mischio e otto colonne in marmo bianco con capitelli corinzi di foggia diversa che si trovano, rispettivamente, nel cortile e nell’androne, mettendole in relazione con le vicende costruttive del Coro che ella ripercorre attraverso i documenti e le notizie riportate dal Poggi (1909). Secondo l’interpretazione della Becherucci, da un primo coro provvisoriamente installato nella terza campata della navata centrale di cui esistono documenti tra il 1379 e il 1437, si passò ad un coro ligneo progettato dal Brunelleschi sul quale poi sono documentati progetti successivi dovuti a Donatello, Antonio Manetti, Giuliano da Maiano, Giuliano da Sangallo e Nanni Unghero, finchè un passo delle "Istorie" del Cambi, riportato dal Poggi (c. 248 doc. 1237), attesterebbe la conclusione di un nuovo coro nel 1520. Nel 1547, sempre, secondo la ricostruzione della Becherucci che rimanda agli studi dell’Heikamp (1964), la costruzione di un nuovo coro marmoreo, fortemente voluta dal duca Cosimo I, viene affidata a Baccio Bandinelli con la progettazione architettonica di Giuliano di Baccio d’Agnolo. L’arcata dovrebbe pertanto appartenere a questa fase anche se la studiosa suppone che le colonne in marmo mischio dovrebbero risalire a dopo il 1566, anno in cui secondo il Lapini (p. 153), fu scoperta una cava di quel marmo a Seravezza. Sempre secondo il Lapini (p. 164) solo nel 1569 furono issate le nuove colonne e tolte quelle che vi erano da qualche anno e che pare fossero scanalate. Secondo la Becherucci, che comunque propone questa chiave di lettura come una possibile direzione di ricerca, nel coro bandinelliano erano stati riadattati elementi precedenti da circoscrivere entro il XV secolo: le colonne in marmo mischio dell’arcata sembrano riadattate ai capitelli ionici preesistenti, a suo dire di foggia quattrocentesca, i cassettoni a rosoni nel sottarco recano una chiara impronta quattrocentesca e così i capitelli corinzi delle colonne che si trovano nell’androne. Più recentemente, di questa complessa struttura dà una lettura diversa il Morolli (2001) che ripercorre nuovamente le vicende costruttive del coro fornendo alcuni nuovi elementi.
Il primo coro ottagono sotto la cupola fu concepito dal Bunelleschi nel 1436 e se pur destinato ad essere realizzato in mami policromi il suo primo aspetto fu quello fu di coro di legno grezzo d’abete con colonette trabeate. Con l’avvento al soglio pontificio di Leone X nel 1513, il vecchio coro venne smantellato ed una nuova struttura sempre in legno venne affidata a Baccio d’Agnolo, capomaestro della cattedrale e a Nanni Unghero, che realizzarono un coro in legno di pioppo dove quattro arcate si aprivano al centro dei lati ovest, est, sud, nord, del recinto ed erano sostenute da quattro coppie di colonnette di marmo, probabilmente individuabili, secondo il Morolli in quelle conservate presso il museo. Nel 1546 il duca Cosimo I affida a Giuliano di Baccio d’Agnolo, capomaestro dell’opera dal 1543, e a Baccio Bandinelli la realizzazione del terzo nuovo coro che doveva essere realizzato interamente in marmo. Ed è proprio a Giuliano che spetta il concepimento della parte architettonica del coro, secondo una più attenta lettura della vita vasariana del Bandinelli ed un’interpretazione aggiornata delle soluzioni progettuali e degli ornati, che, sostanzialmente, il Morolli attribuisce ad una rilettura del De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti che veniva nuovamente dato alle stampe nel 1550 da Cosimo Bartoli. Il Vasari accusa Giuliano di “poca grazia”, di mancanza di “debita proporzione” e di “giudizio”, ma lo fa con il tono paternalistico che, secondo il Morolli, nasconde l’apprezzamento verso il buon artigiano poco consapevole però delle sue potenzialità. In realtà, scrive Morolli, l’architettura ideata da Giuliano “straordinaria nella sua complessità classicista”, si presentava come una “macchina ricca di sapienze tanto morfologiche quanto proporzionali”. E i riferimenti all’Alberti sono tali e così numerosi che non possono essere considerati casuali: l’applicazione del meccanismo dell’ordine addossato che contemplava il caso di colonne libere poste vicinissime alla parete, la dialettica tra le "columnae quadrangulae" dei pilastri e le "columnae rotundae", la base pseudoionica sottoposta all’ordine delle colonne, le volute del pulvino del capitello che compiono due giri intorno all’occhio e non tre secondo i canoni vitruviani, l’assenza dei dentelli nella sottocornice. Gli elementi dell’arcata ripropongono tutti questi aspetti che non sono da interpretare come retaggi tardo quattrocenteschi del precedente coro (come ancora si legge nella scheda OA SBAS FI 09/00225679) ma come echi albertiani in un contesto pienamente cinquecentesco nel quale l’adozione dell’ordine ionico deve essere messo in relazione con la vocazione fortemente mariana del recinto presbiteriale, nato per circondare un severo contesto “cristologico” che si svolgeva all’interno dell’ottagono col gruppo scultoreo bandinelliano del Cristo morto e e del Dio Padre. Soltanto le colonne in marmo mischio, come osservava la Becherucci, non appartengono alla progettazione di Giuliano che, come riferisce il Lapini (p. 164), le aveva realizzate “in marmo bianco incannellate”. Nel 1560, alla morte del Bandinelli, il Duca Cosimo I incarica Bartolomeo Ammannati e Francesco da Sangallo di portare il Coro a compimento. In questi anni viene scoperta a Seravezza una cava di marmo mischio con la quale vengono realizzate le settantadue colonne dal fusto liscio accostate ai pilastri che conferivano un sapore “pittorico” e “tonale” ad una struttura nata con un timbro edificatorio dal valore “tettonico” più accentuato. Nel catalogo del museo del 1891(p. 4) sono ricordate nel vestibolo due colonne ioniche con basi e capitelli, di marmo di Seravezza e datate al secolo XVI. Si tratta forse delle colonne dell’attuale arcata rimontate in un momento successivo alla stesura del catalogo, prima del 1969, anno in cui l’arcata è descritta nella sala della scultura al piano terreno.
Relazione iconografico religiosa
Il coro bandinelliano, fortemente voluto dal duca Cosimo I nel decennale della sua salita al potere, appare come uno dei principali emblemi architettonici della volontà artistica del primo Granduca di Toscana ed in rapporto con il peculiare clima dell'incipiente riforma cattolica, sia per quello che era contenuto all'interno del recinto ottagono, il corpo morto di Cristo offerto dal Padre per la Redenzione del genere umano, sia per quello che la forma del contenitore poteva esprimere a livello simbolico per quel contenuto. L'utilizzo dell'ordine ionico per comporre il recinto colonnato che si stringeva attorno all'altare del Sacrificio di Cristo è indice di una scelta orientata a far risaltare l'aspetto mariano del recinto stesso. Il coro, dalla veste candida, si collocava esattamente al centro dello spazio della crociera coperto dalla cupola, esternamente profilata da bianche membrature e ricca di luminose incrostazioni marmoree nel tamburo. Una connotazione dunque in senso mariano e pertanto femminile e "protettivo", nel giro di colonne che si stringono intorno alla mensa sacrificale, per uno spazio che doveva essere altamente allusivo e gravido di significati simbolici.