Descrizione
La scultura marmorea raffigura un profeta, con barba e capelli ricci e vestito all'antica con grande tunica e mantello. Esso è eretto, con una leggera torsione del busto si volge verso la propria destra, a guardare in alto. Nella sinistra ha un rotolo chiuso o un cartiglio svolto, mentre la destra, mutila, è lievemente sollevata.
Notizie storico critiche
La statuetta formava un insieme a decorazione della porta d'ingresso del Campanile di Giotto assieme ad altre due simili, raffiguranti figure barbate con cartigli; in particolare era a pendant con un'altra stilisticamente affine per anni e cronologia e per posa speculare. La presente fu collocata sul portale d'ingresso del Campanile del Duomo di Firenze nel 1431. Vasari la attribuiva, con la compagna, ad Andrea Pisano, su disegno di Giotto. La stessa notizia viene riportata anche dal Richa e dal Follini. Lo Shmarzow riferì il Profetino al Lamberti, invece la Brunetti le attribuì entrambe a Nanni di Bartolo, e propose una datazione intorno al 1410. Lanyi propose per le due sculture, con cautela, il nome di Giuliano da Poggibonsi. L'attribuzione a Nanni di Bartolo è condvisa da Kauffmann, Paatz e Krautheimer. Toesca propose di riconoscervi la mano di Antonio di Banco. Swarzenski la definì opera esemplare del Gotico internazionale fiorentino. Rossi si limitò a riportare le attribuzioni precedenti, mentre nel Catalogo del 1969, la Brunetti ripropose l'attribuzione a Nanni, documentandone la vicenda critica. Goldner, su base di analisi stilistiche, attribuì entrambe le statuette a Niccolò di Pietro Lamberti, per somiglianza ai San Marco della facciata del Duomo e a quelli della Basilica di San Marco a Venezia. Nel 1979 Reggioli riprospose l'attribuzione a Giuliano da Poggibonsi. Herzner riferì la statuetta all'attività giovanile di Donatello, ancora a bottega dal Ghiberti, quindi con una datazione tra il 1406 e il 1408.
Relazione iconografico religiosa
L'impossibilità di un riconoscimento iconografico del profeta, nonché la cattiva conservazione dello stesso, soprattutto per la mutilazione della mano e del cartiglio rende complesso qualsiasi ragionamento sulla stessa. Di sicuro è possibile affermare che la figura sia un profeta: per l'abbigliamento, la barba e il cartiglio. Egli è colto in un momento di estasi e di rivelazione divina: infatti, il manto è mosso come da un vento che è quello dello Spirito di Dio (si pensi all'Abramo del Brunelleschi per la formella del 1401), la testa è rivolta verso il cielo, e gli occhi sono come accecati. Lo stesso elemento del cartiglio rimanda al ruolo del profeta come mediatore della rivelazione tra Dio e la pagina scritta. Se si considerano anche le altre due statuette, che con questa decoravano il portale d'ingresso, si potrebbe riprendere, benché con molta prudenza, l'ipotesi del Richa, che vedeva nel gruppo una rappresentazione della Trasfigurazione di Gesù (Mc, 9,2-8, Mt, 17,1-8, Lc, 9,28-36). In questa figura allora, posta a sinistra, e nel suo pendant, un tempo nella parte opposta, speculare nella posa, sarebbero da riconoscervi Mosè o Elia, i due profeti che apparvero al fianco di Gesù sul Monte Tabor nel suddetto episodio evangelico. Più complesso è accettare di riconoscere il Cristo nella statua stilisticamente più arcaica, barbata, indicante un cartiglio, rivolta in avanti, un tempo al centro del gruppo. Accetando però questa identificazione, si potrebbe interpretare il gesto di quella, come indicante, non il cartiglio, che pur ostenta, ma sé stessa, a dichiararsi cioè Verbo fatto carne, in sostituzione alla Legge veterotestamentaria, rappresentata appunto dai due profeti con cartiglio. Al soggetto della Trasfigurazione ben si converrebbe anche la collocazione originaria delle statue, verso est, ossia verso il sorgere del sole. L'identificazione del bagliore dell'alba con il Cristo risplendente sul Monte Tabor, tanto candido e luminoso da essere intollerabile allo sguardo dei tre apostoli testimoni, afferirebbe puntualmente all'incipit del Vangelo di Giovanni, alla profezia del "sol ex oriens alto" di Zaccaria (LC, 1, 76-77) e, soprattutto, all'Adorazione di Simeone (Lc, 2, 39), appropriatamente alla festa della Candelora, ch'era la tra le più importanti di quelle celebrate in Duomo.